«I visitatori non vogliono osservare passivamente le opere ma partecipare, hanno il desiderio di emozionarsi e divertirsi acquisendo nuove conoscenze»: lo scrive Katia Giannetto nel suo saggio intitolato “La fruizione dei beni culturali nell’era della iconocrazia digitale” (pubblicato in “Il patrimonio Culturale di tutti, per tutti”, Edipuglia, 2018). Valorizzazione dei beni culturali e fruizione turistica delle destinazioni, ci riportano a ripensare come la storia sociale di ogni comunità locale, i propri valori del patrimonio materiale ed immateriale, le attività artigianali e i prodotti tipici, i servizi, gli antichi mestieri, i sapori e le tradizioni popolari, siano componenti unici ed identitari che sicuramente costruiscono il prodotto turistico della destinazione. Difatti nel suo saggio sul dono, apparso negli anni Venti del ‘900, Marcel Mauss sottolinea la presenza del “fatto sociale totale” che fa leva, in una società dominata dalle logiche mercatali, sul “dono” che diventa protagonista fondamentale innestando così una catena di scambi: una comunità locale dona; il visitatore, turista, riceve e ricambia il dono.
In questa dinamica anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono attraverso il turismo esperienziale, dando così vita ad un legame tra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico. Cambia allo stesso tempo il paradigma di approccio che si sposta da una destinazione territoriale turistica a quella della destinazione umana, che trova la sua radice nella identità stessa del turismo che guarda alla persona ed ai servizi da erogare ad essa; una destinazione umana che fa del territorio l’autenticità percepita dal turista. Ecco allora che il gesto del donare non si limita ad un passaggio di beni, ma mette in gioco la totalità dei fattori culturali che qualificano una società. Se in questa logica il turismo esperienziale fosse ben organizzato, potrebbe divenire una chiave importante per lo sviluppo turistico dei nostri territori. Questa ricchezza deve essere poi sicuramente ben collegata alle diverse esperienze nei settori culturali, paesaggistici-ambientali, enogastronomici, religiosi. Il cambio di passo, auspicato da più parti, in ultima analisi, richiede la capacità di programmare interventi innovativi che guardano a logiche strategiche, ad una visione d’insieme, alla capacità di indirizzare politiche di sviluppo. Dobbiamo essere capaci di gestire i processi di crescita. Senza dubbio la “mission” strategica dello sviluppo del territorio in beni culturali e turismo devono tornare al centro dell’azione di governance delle politiche del territorio; accoglienza, ospitalità intelligente, accessibilità, sostenibilità, comunicazione e servizi di accompagnamento.
In questo contesto del territorio-spazio come esperienza del vissuto quotidiano del viaggiatore, trova collocazione l’ecomuseo, termine introdotto nel 1971 da Hugues de Varine, che si occupa di studiare, tutelare e far conoscere la tradizione e la memoria collettiva di una comunità delimitata geograficamente e il suo rapporto storico e attuale con le risorse culturali ed ambientali del territorio. Sinteticamente, l’ecomuseo rappresenta una struttura pensata come “museo diffuso” di un’area vasta circoscritta da un territorio geomorfologicamente marino, collinare e montano, articolato in piccoli nuclei (siano essi realtà museali ovvero spazi d’interesse etnoantropologico, storico-artistico, architettonico, religioso, naturalistico e paesaggistico) all’interno dei quali è possibile prevedere una presentazione tematica dei “patrimoni culturali” esistenti entro i confini del territorio comunale, nell’ottica interdisciplinare dell’istituzione di una più ampia rete museale.
La valorizzazione dei patrimoni culturali viene così perseguita in una forma di “narrazione museale”, ossia da una realtà che privilegia il valore materiale e patrimoniale degli oggetti del bene culturale, quasi sempre assunti nella loro singolarità ed unicità, che possono anche essere di per sé poveri e di scarso valore e tuttavia densi di significato per la capacità da essi posseduta di raccontare la storia, o le storie, del territorio stesso e delle comunità che all’interno di esso hanno segnato la loro presenza nel tempo (Sergio Todesco, Antropologo). All’interno del territorio ecomuseale potranno operare anche i musei diocesani, parrocchiali, etnoantropologici, dimore storiche, museo del viaggio e degli scrittori ed altri musei tipici, che possono così diventare in ottica di sistema di rete, spazi per elaborare i linguaggi artistici con i quali è possibile veicolare il concetto di arte che assume, non a caso, una connotazione di forte potenza simbolica soprattutto per chi si interroga sull’affidabilità all’esperienza religiosa, poiché l’arte, per esempio, è in buona parte “storia di teologia e spiritualità”.
Cosa significa tutto questo? Per prima cosa, consapevolezza di lavorare alla priorità strategica sulle politiche culturali, sulle risorse necessarie per la promozione del sistema territoriale nel suo complesso in chiave di sostenibilità economica e culturale, in una solida governance tra pubblico e privato. La seconda, una forte pianificazione delle azioni di politica turistica locale nel rafforzamento del capitale umano in termini di conoscenza del territorio, competenza delle professionalità specifiche e competitività nel reggere il forte impatto dei mercati esteri nei territori. Potrebbero essere queste le due direttrici per vincere le sfide della post modernità nei beni culturali e turismo. (Filippo Grasso)