Per solennizzare la costruzione del primo acquedotto della Città di Messina, ottenuto con il convogliamento delle acque dei fiumi Camaro e Bordonaro, verso la metà del XVI sec. il Senato messinese decretò la costruzione di una artistica fontana monumentale e per lo scopo incaricò lo scultore fiorentino Giovanni Angelo Montorsoli, già da qualche tempo a Messina per sovrintendere alle decorazioni della fabbrica del Duomo. Per fondare degnamente il monumento fu necessario abbattere i residui ruderi dell’antica Chiesa di S. Lorenzo che insisteva sulla piazza. Il Montorsoli, assecondando la volontà del Senato ed i consigli del matematico Francesco Maurolico, volle dedicare la fonte ad Orione, del quale la tradizione lo riteneva il fondatore della città e attraverso il monumento poterne così rappresentare il trionfo. Sorse così nel 1547 “la fontana di Orione”. La sua figura, con lo stemma civico e il cane Sirio ai piedi, svetta al sommo della fontana. Il bacino inferiore sorge su di un basamento di tre gradini con proporzioni assai vaste ed ha una forma decagonale regolare. La monotonia geometrica viene interrotta da quattro rientranze simmetriche in cui si insinuano quattro vasche con mascheroni che ricevono l’acqua dalle anfore tenute da quattro statue nude placidamente sdraiate sugli orli: i quattro fiumi, Nilo, Tevere, Ebro, e Camaro, sono disposti in modo che il Nilo e il Camaro, il Tevere e L’Ebro si danno le spalle, e contestualmente il Nilo e il Tevere, L’Ebro e il Camaro si guardano. Gran copia di rilievi spiccano intorno al parapetto ad elevazione di questa prima vasca, agli angoli sporgenti e rientranti con dei gruppi di cariatidi di ambo i sessi che sorreggono ed adornano il morbido e ben profilato orlo; nelle rientranze sulle quattro vasche e in corrispondenza delle quattro statue simboleggianti i fiumi vi sono una riquadratura grande nel mezzo e due piccole ai lati e nelle due facce di fianco una cartella per ciascun lato. In giro tra le quattro vasche sul parapetto del grande bacino spiccano otto formelle rettangolari abbinate a due a due, di forma ovale all’interno, circondate da frutti di mare e da altri simboli, e sorrette da morbidi nastri.
Di fronte al Duomo, in corrispondenza in linea d’aria con la Via Primo Settembre, (allora Via Austria), vi era in progetto di unire, con una linea immaginaria, la Piazza del Duomo e la Piazza Reale, ed in questo il Montorsoli posizionò la statua del fiume Nilo con il capo rivolto nella direzione della strada, e sotto la quale si legge il distico dettato dal Maurolico: “NILUS EGO IGNOTUM SEPTENA PER OSTIA FESSUS/ HIC CAPUT IN GREMIO ZANCLA REPONO TUO” (Io, il Nilo, diviso in sette foci, le mie ignote origini nascondo nel tuo seno, o Zancle). La statua del fiume Nilo è rappresentata da un vecchio gigante disteso tra canne e palme, con sulla sinistra un fondo di ricca architettura egiziana e intorno a lui e sulla persona alcuni putti (il Nilo e le sette foci, simbolo dell’Egitto limite orientale dell’allora estensione della dominazione spagnola). Dai piccoli riquadri laterali sbalzano due putti con cornucopie per getto d’acqua e nelle facce perpendicolari di fianco figurano altre composizioni secondarie. Seguono a destra due cartelle, dove negli ovali interni recano la prima, con un verismo sorprendente, la scena mitologica svoltasi dall’Etna al mare tra il pastorello Aci, l’amante riamato di Galatea, e il geloso Polifemo che lo lapida, e la seconda, svolto nell’acqua di un dolce idillio tra Pomona e Vertunno. Nella faccia rientrante, sotto la statua del Tevere, simbolo della grandezza e possanza di Roma, è la Lupa con i Gemelli tra trofei d’armi, armati e vittorie con palme e trombe. Fiancheggiano, nei piccoli riquadri, due puttini nei cui volti aleggia il sorriso e la spensieratezza. Vi si legge il seguente distico: “OB MERITUM ANTIQUAE FIDEI, MESSANA, PERENNES/ FUDIT AQUAS MAGNI TIBRIDIS URNA TIBI” (In ricordo dell’antica fedeltà, o Messina, perenni acque versa per te l’urna del gran Tevere”). Nelle due cartelle ovali contigue, delicatamente scolpite, si vede Narciso lanciato a capofitto e trasformato in limpida fonte nel mezzo di un giardino incantato ricco di fiori, di verde e di poesia; quindi Atteone che scorgendo Diana nuda con le compagne al bagno viene trasformato in cervo e divorato dai cani della dea irata.
Nella terza faccia rientrante, sotto la statua dell’Ebro, vi è l’aquila bicipite e le colonne d’ercole della grandezza della Spagna: si vede lo stretto di Gibilterra con due fari, da una parte è Atlante e dall’altra Ercole e le ninfe dell’orto delle Esperidi. Nei riquadri laterali alcuni putti che reggono delle corazze. Il Montorsoli inneggia alla ferace regione dell’Ebro e delle Esperidi, che immagina nella Catalogna, con il seguente distico: “ HESPERIDUM VENIO REGNATUR AQUARUM NEC REGIO IN SICULIS GRATIOR ULLA FUIT” (Io, l’Ebro, qui giungo qual re delle acque esperidi, ed in Sicilia nessuna regione mi è riuscita più gradita di questa). Nelle due cartelle ovali che seguono si vede il cavallo alato Pegaso, su un fondale di ricca architettura, nell’atto di montare l’erta cima per far sgorgare dal monte Helicona la fonte Hippocrene; poi l’Europa rapita da Giove sotto le mentite spoglie di toro che corre sull’acqua. Segue la quarta ed ultima faccia rientrante sotto la statua del Camaro, il fiumicello presso Messina, le cui scarse acque erano destinate all’alimentazione della fontana. Vi è inciso il seguente distico: “ SUM PATRIAE FAMULUS, CAMERIS EXORTUS AQUOSIS/ OFFICIO MANANT FLUMINA TANTA MEO” (Son figlio di questa terra, nato dai monti Cameri ricchi di acqua, per opera mia sgorgano tanti zampilli). L’altorilievo del riquadro rappresenta una porta della città tra le mura come maestosamente era fortificata nel cinquecento. Una dama riccamente vestita e velata (Messina) invita un uomo sdraiato (il Camaro), ad entrare in città. Nelle due formelle susseguenti sono simboleggiate: la morte di Icaro con due figure, una volante ed una nell’atto di affogare nell’acqua, poi Frisso sull’ariete d’oro con la sorella Helle la quale, attraversando il mare, scivola in acqua ed affoga legando il suo nome al mar Egeo. Agli otto angoli delle quattro rientranze, su basamenti sporgenti a guisa di raggi, sono accoccolati altrettanti mostri marini di proporzioni grandiose con le code di delfino ripiegate sulle rispettive schiene. Sono sculture magistrali di un verismo sorprendente, con un effetto ammirevole anche per il contrapposto del colore, essendo eseguite in pietra grigia non molto dura, ragione per la quale risultano alquanto sbiadite. Rappresentano un cavallo marino con a fianco una vacca, un leone marino ed un grifone, un cane marino e una leonessa e da ultimo una sfinge o sirena presso un mostro marino dalle sembianze umane che guarda con tanta espressione di verità da destare la più alta meraviglia.
Dal centro della gran vasca sorge un blocco prismatico di marmo che sopporta la sopraelevazione di circa sette metri: dagli spigoli sbalzano quattro sirene alate e, nella parte superiore, quattro superbi tritoni nudi inginocchiati, con le braccia elevate nell’atto di un poderoso sforzo, e che sostengono una seconda vasca dalle forme slanciate, dal profilo elegante, dalle decorazioni varie, fra le quali campeggiano quattro teste di Medusa che versano acqua dalle bocche. Un secondo basamento sorge dal centro di questa vasca su cui si eleva il più bel pezzo di scultura concepito e modellato dal Montorsoli nel momento più felice d’ispirazione per questo capolavoro. Piacque all’artista immaginare e scolpire quattro giovani ninfe, con le braccia elevate, morbide e flessuose, con le mani leggiadre a sostenere la terza vasca, anch’essa decorata sfarzosamente e con ai quattro lati le teste dai visini allegri dalle cui bocche sgorga l’acqua. Sopra la vasca delle ninfe un gruppo di putti a cavallo di delfini che reggono un globo gemmato sul quale, con la fronte rivolta al Duomo e alla città torreggia il mito “Orione” con il fedele cane Sirio accucciato ai piedi, con il braccio destro alzato e il palmo della mano spiegata in atto di inneggiare alla patria fedelissima, e con la mano sinistra che sostiene lo stemma con le armi della grandiosa Regina del Faro che era, allora, la città di Messina.
Fonte: Sandro Chierichetti
Edizioni: Archivio Sicilia Folklore di Biagio Russo
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