Foto 1
Commenta (0 Commenti)Quando mi chiede, col garbo che lo contraddistingue, se ho voglia di scrivere per un seminario sul Turismo di radice da lui organizzato, non esito a rispondergli di sì. E non lo faccio solo per cortesia, ma anche perché le parole “origini”, “radici” e “ritorno” esercitano su di me un grande potere evocativo e generano forte coinvolgimento emotivo. In realtà adesso io dovrei parlarvi di offerta e di domanda, di coinvolgimento degli stakeholders, di sostenibiltà economica, ambientale e socio-culturale, di multifattorialità, di politiche locali, regionali e nazionali, di strategie attrattive, di risultati di indagini statistiche dell’Enit e di iniziative della Farnesina… Ma non sarebbe da me. Pur se affascinata dagli interventi delle relatrici Sonia Ferrari e Tiziana Nicotera dell’Università della Calabria, dalla cui fervida iniziativa ha preso il volo il progetto ambizioso di provare a studiare e sviluppare quest’importante segmento ricco di grandissime potenzialità, sono consapevole che questo non può essere il mio compito, ma solo un punto di partenza per riflessioni più intimistiche e profonde, che partano da ciò che sempre dovrebbe muovere il lavoro degli uomini di buona volontà: l’attenzione, la comprensione e il rispetto per l’essere umano. E dopo aver ascoltato le interviste fatte ai nostri emigrati nelle varie parti del mondo, ho compreso che solo l’immedesimazione nei loro sentimenti e bisogni può realmente condurre alla condivisione, poi alla consapevolezza, ed infine all’elaborazione di quella che è la più nobile delle “curve d’offerta”: la predisposizione di risposte concrete a quei sentimenti e a quei bisogni. Ho dunque istintivamente imboccato la strada del viaggio più coinvolgente che si possa scegliere di fare: quello dentro il cuore della gente. Mettendo quel cuore nel mio stesso petto. Ed è nato il racconto.
"Sono ancora una bambina e qualcuno ha staccato per me il biglietto per quella nave che mi porterà lontano dalla mia terra, dalle certezze, dalla famiglia e dagli amici, da quella comfort zone che sempre è il luogo che ci vede nascere e in parte crescere. Ho affastellato strati su strati di poveri vestiti dentro valigie di cartone tenute su con lo spago, cercando di farci stare dentro tutto. Le ho viste goffe come la mia paura, traboccanti come la mia speranza, gonfie come i miei occhi che trattengono il pianto, deformi come i mostri dell’insicurezza che affollano la mia mente. Le ho chiuse come si chiude un libro del quale hai letto le ultime righe ma non hai capito il finale, quando non sai se ad uccidere è stato il maggiordomo o no, e in testa ti si disegnano solo storti punti interrogativi a cui nessuno darà risposta se non il tempo. Vorrei fermare quelle lancette e provare a capire se c’è un altro modo per andare avanti che non sia questo strappo così violento e doloroso, ma incuranti di me e di ciò che provo, esse continuano a battere i minuti che mi separano dall’addio. Salgo su quella nave, e la paura della lunga traversata è solo la prima delle tante che affronterò. Se la mia terra mi è stata matrigna, negandomi di poter restare, lo sarà anche il mare? E questa nuova terra sconosciuta su cui approderò, come mi accoglierà? Rivedrò ancora queste rive da cui pian piano l’occhio si allontana, o forse è meglio che mi beva tutto, anche quest’angoscia forte dentro il cuore, come fosse una medicina amara che, passato il disgusto, prima o poi mi farà stare bene? Non c’è niente di cui abbia certezza, niente che mi offra garanzie. C’è solo il mare ormai, dietro e davanti a me, e quest’anima che galleggia a stento ondeggiando fra riccioli di schiuma che sembrano non finire mai. E nausea. Un insostenibile senso di nausea. Ma finalmente scorgo terra, e mi vien voglia di gridarlo come Rodrigo de Triana dalla coffa della Pinta. C’è un uomo che mi aspetta sulla banchina del porto, ha in mano un piccolo mazzo di fiori e agita le braccia verso di me, che ancora non posso scendere perché le operazioni di sbarco vanno per le lunghe. Ma lui a un certo punto non resiste più e me lo lancia, costringendomi a spiccare un salto rapidissimo se non voglio che i miei fiori cadano dentro l’acqua, portando “malaugurio” prima ancora che io scenda.
Quell’uomo esuberante di felicità è il nonno, e io mi ci getto addosso sfinita, attraversando quell’abbraccio come fosse un ponte fra la mia “vecchia” vita e questa nuova. Ma è difficile abituarsi. Non capisco una sola parola di quello che dicono e loro non capiscono me. A scuola sembro stupida, non li seguo, mi prende lo sconforto e vorrei tanto tornare a casa, quella vera, dove non c’è neanche bisogno di parlare perché basta un gesto per farsi capire. Ad esempio, se abbasso la testa è un sì, se la alzo è un no. Ma tutte le volte che la alzo qui mi guardano stralunati sotto il mento per capire perché gli mostri il collo, e lo scopro tardi che sarebbe bastato dire semplicemente “no”, perché anche qua si dice così. E mi prendono in giro, ridono di me. Mi dicono “perché non te ne torni da dove sei venuta” con aria sdegnata, quasi non fossi neanche un essere umano. Mi viene da piangere ma non piango, questa soddisfazione non gliela dò. Piangerò quando sarò tornata a casa, anche se qui casa è un’altra cosa, e per me sono diventate pareti solo le braccia della mamma che tentano di consolarmi mentre si riavvia i capelli e poi sospira. Mi cambiano perfino il nome senza chiedere il permesso, perché io mi chiamo Pina, ma qui mi urlano contro Josephine… Josephine! E io mi giro indietro perché Josephine non so chi sia, ma poi la mamma me lo spiega che sono io. E anche il mio cognome fa una strana fine: ma come lo pronunciano? Qui non hanno capito proprio niente. Però devo imparare a essere Josephine, perché se non rispondo a questo nome smetteranno perfino di cercarmi e io non me lo posso permettere. È dura ma io cresco, e piano piano parlo come loro o almeno mi sforzo, e studio, lavoro, fatico e poi mi sposo, e ho dei bellissimi figli che qua ci sono nati e che sono parte di me pur senza conoscere tutto di me. E ogni tanto li sorprendo a scrutarmi, la sera, quando stanca mi siedo sul divano per guardare la tv, ma il film non lo vedo. Perché tutte le sere, a una cert’ora, io ritorno a casa. Casa quella vera, dico. Quella in cui sono nata. Rivedo le montagne verdi e il mare, sento l’odore della terra umida che si mischia a quello del ragù della nonna, quando s’incontrano sull’uscio di casa attraversando il naso mentre aspetto accovacciata sugli scalini che sia pronto. La nonna canticchia in dialetto mentre si muove vicino alla pentola sul fuoco, e fra una mescolata e l’altra al sugo si siede alla macchina da cucire e dà “due punti” all’abito da sposa della figlia di commare Rosa, perché il matrimonio s’avvicina e lei tempo non ne può perdere. Ogni tanto il sugo si “appiglia” sul fondo della pentola, e lei parte con quei suoi proverbi in dialetto stretto stretto che mi fanno ridere tanto quando provo a ripeterli con lei storpiando le parole. Mi abbandono sul divano e penso alle stradine strette strette, alle casupole una sull’altra, alle donne con il cesto in equilibrio sulla testa, al vociare davanti all’uscio di casa coi vicini e i figli dei vicini e i nipotini, e alle porte e alle finestre tutte aperte che sembra che la casa sia tutt’una, la nostra e quella degli altri, quasi che la casa sia la strada stessa.
Ai dolci che pagherei oro per riassaggiare, ai balli nella piazza nelle sere d’estate, alla Chiesa madre così bella e antica e al Rosario davanti al braciere con le scorze d’arancia buttate dentro per profumare l’aria. I miei figli e i miei nipoti fiutano la mia nostalgia, e allora si stringono intorno e cominciano a domandare, a spingermi a parlare, a tirare fuori i miei ricordi. E in fondo io non voglio che questo: raccontare e rivivere; rivivere e raccontare. E tornare. Sì, tornare, un giorno. E se non potrò tornare, loro mi dovranno fare una promessa: tornare per me. E cercare quei luoghi, imparare a conoscerli e amarli come li ho amati io, che non li dimenticherò finché avrò ancora un ultimo respiro. Mi stringono la mano, mi abbracciano e promettono solennemente. Torneranno là da dove loro stessi vengono, per riaffondare le mani in quella terra dove le nostre radici, forti e ben piantate sul terreno, ancora sopravvivono. Perché io glielo ricordo sempre: non esistono rami vivi se li stacchi per sempre dalle radici cui appartengono. E non esiste pianta che, non coltivata, prima o poi non muoia, portando via con sé radici e rami. Finisce qui il mio racconto, che non ha fatto altro che mischiare i sentimenti che le testimonianze ascoltate hanno trasmesso con potente intensità. Ma per fortuna non finisce qui. Perché credo che la promessa fatta dai nipoti ai loro nonni di tornare, possa e debba essere un impegno onorato non solo da chi se ne è fatto carico, ma anche da chi può lavorare per renderlo possibile. E questo seminario ha mostrato che è possibile, anzi direi che è auspicabile, prendere le mosse dai sentimenti per implementare turismo ed economia. Per riportare qui le risorse che abbiamo permesso che andassero a fiorire altrove. Per rianimare economie locali al collasso, ripopolare borghi ormai dimenticati, ricostruire ponti fra mondi ormai evoluti ed avanzati, ed entroterra ancora vergini di cultura, progresso, modernità. Credo che progettare per restituire un’identità a chi sente di averla perduta, per ricucire una ferita che il tempo e le distanze fanno sanguinare ancora, per riconnettere fili spezzati con parenti, luoghi, ricordi e tradizioni, può e deve diventare un modo onorevole per restituire i propri figli a questa terra che spesso ha dovuto vederli partire perché niente aveva da offrire. E che, come una madre che ha sacrificato tutto per racimolare pochi spiccioli per quel biglietto, aspetta che ora tornino arricchiti e realizzati, con le valigie piene di regali. E quanto più ci sarà da lavorare per mettere a punto le strategie giuste, tanto maggiore dovrà essere l’impegno delle istituzioni, delle associazioni, degli studiosi e degli operatori del settore. Invece, quanto ad accoglienza e umanità da offrire, sono certa che non dovremo fare molto. In tema di generosità, calore e disponibilità, soprattutto al sud, anche i poveri, gli sprovveduti, i più carenti di cultura e di risorse ci hanno conseguito laurea e master. E una fetta di pane caldo con l’olio buono, una porta aperta, una sedia, una chiacchierata e un larghissimo sorriso, non li rifiutano a nessuno. Mi sembra tutto pronto, quindi: intuizione, progetto, risorse, fattibilità. Non resta che salpare, come fece Cristoforo Colombo". Magari per scoprire, finalmente, che in fondo l’America era qua".
Daniela Cucè Cafeo
Commenta (0 Commenti)
Raccontare l’esperienza di un fine settimana trascorsa al borgo di Novara di Sicilia in poche righe èimpossibile! Tante sono state infatti le occasioni di incontri, attesi e anche inaspettati.Iniziamo dall’accoglienza ricevuta alla Tenuta Lacco di Rodì Milici, azienda agrituristica biologica della famiglia Calderone che ci ha ospitato. Qui si produce il “Mamertino” DOC, rosso e bianco. Non vorremmo spendere elogi o complimenti: vi invitiamo soltanto a dare un’occhiata al sito web:http://www.tenutalacco.com/index.htmlDa Rodì Milici, proseguendo sulla SS 185, si raggiunge Novara di Sicilia, borgo più bello d’Italia dal 2004.Situato al confine tra i monti Peloritani e i Nebrodi, sulla sella “Rocca Salvatesta”, il borgo rappresenta uno scrigno di arte, cultura e tradizioni uniche. Le sue chiese, l’Abbazia, i ruderi del castello, il mulino ad acqua ancora funzionante e il gioco del lancio del maiorchino, insuperabile formaggio locale, rappresentano un“unicum”, un museo territoriale, associato alla lingua gallo-italica ancora parlata soprattutto dagli anziani.Tra le stradine e le viuzze ben tenute ti puoi imbattere nella casa di suor Maria Teresa Fontana, “suora dipaese”, vissuta nella seconda metà del 1700, avvolta nel mistero e ancora sprezzante dell’incuria del tempo; oppure in una cantina adibita a sala prove di musica jazz, la cui melodia invade la zona circostante per la delizia degli orecchi dei vicini e degli artigiani; oppure ancora puoi fare quattro chiacchiere amichevoli con i soci volontari della locale proloco.Prima di tornare a casa è d’obbligo una degustazione di prodotti gastronomici:Macelleria Antonella, caseificio “U Murgaellu”Da non perdere assolutamente:la festa dell’Assunta del 15 agosto;il torneo del maiorchino che si svolge nel periodo di carnevale;NovaraJazzFestival, giunto alla XX edizione che si svolgerà dal 1° all’11 giugno 2023.
Commenta (0 Commenti)«I visitatori non vogliono osservare passivamente le opere ma partecipare, hanno il desiderio di emozionarsi e divertirsi acquisendo nuove conoscenze»: lo scrive Katia Giannetto nel suo saggio intitolato “La fruizione dei beni culturali nell’era della iconocrazia digitale” (pubblicato in “Il patrimonio Culturale di tutti, per tutti”, Edipuglia, 2018). Valorizzazione dei beni culturali e fruizione turistica delle destinazioni, ci riportano a ripensare come la storia sociale di ogni comunità locale, i propri valori del patrimonio materiale ed immateriale, le attività artigianali e i prodotti tipici, i servizi, gli antichi mestieri, i sapori e le tradizioni popolari, siano componenti unici ed identitari che sicuramente costruiscono il prodotto turistico della destinazione. Difatti nel suo saggio sul dono, apparso negli anni Venti del ‘900, Marcel Mauss sottolinea la presenza del “fatto sociale totale” che fa leva, in una società dominata dalle logiche mercatali, sul “dono” che diventa protagonista fondamentale innestando così una catena di scambi: una comunità locale dona; il visitatore, turista, riceve e ricambia il dono.
In questa dinamica anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono attraverso il turismo esperienziale, dando così vita ad un legame tra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico. Cambia allo stesso tempo il paradigma di approccio che si sposta da una destinazione territoriale turistica a quella della destinazione umana, che trova la sua radice nella identità stessa del turismo che guarda alla persona ed ai servizi da erogare ad essa; una destinazione umana che fa del territorio l’autenticità percepita dal turista. Ecco allora che il gesto del donare non si limita ad un passaggio di beni, ma mette in gioco la totalità dei fattori culturali che qualificano una società. Se in questa logica il turismo esperienziale fosse ben organizzato, potrebbe divenire una chiave importante per lo sviluppo turistico dei nostri territori. Questa ricchezza deve essere poi sicuramente ben collegata alle diverse esperienze nei settori culturali, paesaggistici-ambientali, enogastronomici, religiosi. Il cambio di passo, auspicato da più parti, in ultima analisi, richiede la capacità di programmare interventi innovativi che guardano a logiche strategiche, ad una visione d’insieme, alla capacità di indirizzare politiche di sviluppo. Dobbiamo essere capaci di gestire i processi di crescita. Senza dubbio la “mission” strategica dello sviluppo del territorio in beni culturali e turismo devono tornare al centro dell’azione di governance delle politiche del territorio; accoglienza, ospitalità intelligente, accessibilità, sostenibilità, comunicazione e servizi di accompagnamento.
In questo contesto del territorio-spazio come esperienza del vissuto quotidiano del viaggiatore, trova collocazione l’ecomuseo, termine introdotto nel 1971 da Hugues de Varine, che si occupa di studiare, tutelare e far conoscere la tradizione e la memoria collettiva di una comunità delimitata geograficamente e il suo rapporto storico e attuale con le risorse culturali ed ambientali del territorio. Sinteticamente, l’ecomuseo rappresenta una struttura pensata come “museo diffuso” di un’area vasta circoscritta da un territorio geomorfologicamente marino, collinare e montano, articolato in piccoli nuclei (siano essi realtà museali ovvero spazi d’interesse etnoantropologico, storico-artistico, architettonico, religioso, naturalistico e paesaggistico) all’interno dei quali è possibile prevedere una presentazione tematica dei “patrimoni culturali” esistenti entro i confini del territorio comunale, nell’ottica interdisciplinare dell’istituzione di una più ampia rete museale.
La valorizzazione dei patrimoni culturali viene così perseguita in una forma di “narrazione museale”, ossia da una realtà che privilegia il valore materiale e patrimoniale degli oggetti del bene culturale, quasi sempre assunti nella loro singolarità ed unicità, che possono anche essere di per sé poveri e di scarso valore e tuttavia densi di significato per la capacità da essi posseduta di raccontare la storia, o le storie, del territorio stesso e delle comunità che all’interno di esso hanno segnato la loro presenza nel tempo (Sergio Todesco, Antropologo). All’interno del territorio ecomuseale potranno operare anche i musei diocesani, parrocchiali, etnoantropologici, dimore storiche, museo del viaggio e degli scrittori ed altri musei tipici, che possono così diventare in ottica di sistema di rete, spazi per elaborare i linguaggi artistici con i quali è possibile veicolare il concetto di arte che assume, non a caso, una connotazione di forte potenza simbolica soprattutto per chi si interroga sull’affidabilità all’esperienza religiosa, poiché l’arte, per esempio, è in buona parte “storia di teologia e spiritualità”.
Cosa significa tutto questo? Per prima cosa, consapevolezza di lavorare alla priorità strategica sulle politiche culturali, sulle risorse necessarie per la promozione del sistema territoriale nel suo complesso in chiave di sostenibilità economica e culturale, in una solida governance tra pubblico e privato. La seconda, una forte pianificazione delle azioni di politica turistica locale nel rafforzamento del capitale umano in termini di conoscenza del territorio, competenza delle professionalità specifiche e competitività nel reggere il forte impatto dei mercati esteri nei territori. Potrebbero essere queste le due direttrici per vincere le sfide della post modernità nei beni culturali e turismo. (Filippo Grasso)
Commenta (0 Commenti)